racconto di Gina

In questi anni, alcuni e alcune di noi hanno scritto delle cose, raccontando impressioni, ricostruendo ricordi e descrivendo emozioni.

 

Incontrai l’idea di sottosopra nell’agosto del 2013 quando Maddalena, una mamma che conoscevo attraverso un comune amico, mi contattò per sapere se avevo voglia di iniziare insieme a lei, al suo compagno Emanuele ed un’educatrice amica, Emanuela, un percorso per la creazione di un asilo nido autogestito. Subito si accese nel mio cervello una lampadina rossa che mi allarmava sull’enorme mole di lavoro che avrei dovuto intraprendere, riunioni, costruzione dello spazio, creazione di un’associazione e di uno statuto, eventuali permessi, questione mensa…. ero molto spaventata e dubbiosa visto che ero alla mia seconda maternità ed avevo una voglia enorme di concentrarmi su me stessa per ritrovare la strada che avevo messo in standby per seguire più consapevolmente i miei figli.

Allo stesso tempo ero molto incuriosita dal progetto, ma soprattutto dalle persone che me lo stavano proponendo: Maddalena, Emanuele ed Emanuela che sapevo politicamente attiv* sulla questione degli spazi pubblici inutilizzati a Milano ed il bisogno di avere dei luoghi in cui progettare percorsi comunitari di arte, politica e cultura.

Dal canto mio, i miei anni di maternità mi avevano portato a creare ponti e relazioni con altri genitori nel mio quartiere, a conoscere realtà associative e costruire attraverso il teatro sociale, percorsi di coesione sociale davvero interessanti.

Era arrivato per me il momento di unire politica e maternità ma mi mancavano le persone con cui costruire percorsi e discorsi nuovi. Intuivo che Sottosopra poteva essere tutto questo, ma avevo iscritto Gabriele all’asilo nido comunale ed ero ormai certa che lo avrebbero preso. Ero confusa e sapevo che, se avessi preso la via di Sottosopra, Antonio ci sarebbe stato molto poco da un punto di vista pratico.

Quello che poi mi fece definitivamente orientare verso un progetto sperimentale, fu la fascia di reddito in cui il Comune di Milano collocava la mia famiglia per la determinazione della retta mensile per la frequenza di Gabriele all’asilo nido.

Il Comune stabilisce quattro fasce di reddito che vanno da zero a 27.000 euro di valore I.S.E.E. e noi venivamo collocati in quella più alta perché superavamo la soglia di circa 700 euro. Abbiamo iniziato a chiederci se queste fasce di reddito corrispondessero alla reale situazione di chi, come noi, aveva una partita IVA e non percepiva mensilmente uno stipendio, non aveva nessuna retribuzione per malattia e si trovava nella condizione di passare periodi senza percepire denaro a causa della mancanza di lavoro. Come potevamo permetterci di pagare 465 euro fissi mensili quando le nostre entrate erano tutt’altro che fisse e prevedibili?

Questa domanda apriva delle riflessioni e non abbiamo trovato nessuna risposta alle domande che ponevamo al Comune perché di fatto il problema dei genitori con lavori precari non è contemplato. Le fasce di reddito sono quelle e bisogna inserirsi in quella relativa, poco importa se poi i soldi li hai tutti i mesi o se per pagare l’asilo nido ti ritrovi a fare dei veri e propri salti mortali.

Ma c’era anche un’altra questione che mi stava molto a cuore e che intendevo affrontare pubblicamente ed è il modo in cui i/le bambin* vengono selezionat* per entrare al nido. Siccome i posti liberi sono limitati rispetto alle richieste, il Comune istituisce delle graduatorie e ad ogni bambin* viene attribuito un punteggio: più punti hai più sali in vetta nelle graduatorie. Il punteggio è una somma di caratteristiche tra cui entrambi i genitori lavorano, in famiglia ci sono altri bambini in età scolare, il bambino ha qualche disabilità, quante ore lavorano i genitori e via discorrendo. Quando ho iscritto il mio primo figlio all’asilo nido, io ero disoccupata e lo segnalai al momento dell’iscrizione al nido seguendo il formulario predisposto.

Leo risultava iscritto ma il suo posto in graduatoria era talmente lontano dalla possibilità di frequentare, che di fatto non frequentò il primo anno. La risposta che mi fu data fu: lei è senza lavoro, si presume che possa occuparsi di suo figlio. Io rimasi molto colpita, pensai che fosse profondamente ingiusto per due ragioni: un bambino ha il diritto di frequentare un asilo indipendentemente dalle caratteristiche dei suoi genitori e soprattutto come fa una madre disoccupata ad emanciparsi e trovare un lavoro se deve badare a suo figlio tutto il giorno?

Provai a confrontarmi con il Comune e scrissi alla segreteria del Settore Educazione ed Istruzione e perfino alla segreteria del sindaco, ma mi risposero che i posti sono limitati e si deve dare la priorità alle famiglie in cui lavorano tutti e due i genitori. Questo mi sconvolse moltissimo perché la dice lunga sulle reali politiche a sostegno dell’occupazione femminile nel nostro paese.

Insomma, dopo una serie di ragionamenti e dubbi su quello che ci aspettava, decidemmo di iniziare un processo nuovo in cui i dubbi potevano essere condivisi con altr*, in cui avremmo potuto portare le nostre competenze e soprattutto iniziare un lavoro di crescita comunitaria dove a beneficiarne non ci sarebbero stat* solo i/le bambin* ma anche noi genitori.

Sapevamo che avevamo dei limiti, che c’era molto lavoro da fare e sarebbe stato complesso conciliare tutto con l’instabilità delle nostre vite lavorative e professionali, ma il bisogno di incontrarsi era, per lo meno per me, più forte di tutto.