racconto di Maddalena

In questi anni, alcuni e alcune di noi hanno scritto delle cose, raccontando impressioni, ricostruendo ricordi e descrivendo emozioni.

 

Così una mattina ho digitato il numero di Emanuela sul telefono, forse era anche troppo presto, e ci siamo dette proviamo a farlo noi un posto per i piccolissimi, dove al centro non ci siano solo loro però. Da dove si comincia? Spargiamo la voce, scotch per volantini e incontri alla Cantinetta di piazza Archinto.

E’ cominciato perché Ugo era rimasto fuori dal nido e io sono una che non vuole fare solo la mamma, che all’epoca desiderava riprendersi il tempo dopo due anni di iperuranio, andare a pranzo con le amiche, scuotermi dalle vocine dolci e dalle bavette ipnotiche: insomma, tornare quella che ero prima, il prima possibile. Ma se anche lo avessero preso non lo so, prima di ogni mio desiderio di ritorno sulla terra, c’era qualcosa che non mi tornava del tutto, come le forme che Ugo cominciava a inserire nei buchi – amore un quadrato nel cerchio non ci sta. Sentivo la necessità di dire delle trasformazioni in corso dentro le famiglie e il lavoro, sottolinearle per raccontarle, come analisi e come modo per ripensare la realtà a partire da ciò che non poteva più essere e che, da una certa prospettiva, era anche un bene che non ci fosse più.

Come si traduceva tutto ciò nel mio rapporto con Ugo? C’erano altre persone con cui condividere questi pensieri? Queste furono le prime domande…

Dunque, ero certa di volermi tagliare i capelli ma non ero convinta di voler lasciare un bambino così piccolo in un luogo così ipermeabile come quelli che avevo osservato agli openday degli asili nidi, pubblici o privati che fossero. Mi sono chiesta a lungo se fosse la madre apprensiva censurata dentro di me che si stesse ribellando, ma ancora oggi non è apparsa, quindi mi sono anche risposta di no. Avevo bisogno di tornare a disegnare senza dieci chili tra la testa e la matita, rispettare le scadenze e cercare nuove relazioni con una maglietta senza croste di vomito addosso, ma sapevo che il mio rapporto con la normalizzazione dell’educazione scolastica avrebbe avuto molto tempo per logorarsi: era svantaggioso cominciare così in fretta!

Quello che mi colpi nelle gite agli open day degli asili nido era la normalizzazione di tutto, allestimento, metodo, frasi ripetute uguali da persone diverse e di diversi quartieri. Un senso di straniamento dovuto al fatto che comunità e i territori non avessero nessuna opportunità di dialogo con quelle istituzioni, bloccati davanti alle pareti di quei piccoli recinti.

La maggior parte delle persone direbbe che è giusto, eppure io penso che la stessa cosa non ha mai funzionato per tutti. Per me madre, donna, lavoratrice precaria, ha funzionato molto poco. Per esempio, il fatto che si possa scegliere solo una sede vicino a casa; che si è indefinibili se non si possiede un contratto di lavoro “vero”; che se non si ha un’occupazione oggi devi tenere il bambino a casa, così un’occupazione non l’avrai neanche domani; che benché né le graduatorie né io consideriamo il mio lavoro un lavoro, la non flessibilità degli orari rischia di non fartelo vedere per giornate intere, e via dicendo.

Infine a me piace confrontarmi, non per rompere le ovaia alle maestre (in questo caso è d’obbligo) o per entrare in ambiti di cui non ho tempo, capacità né voglia di gestirmi, ma per il semplice fatto che vedo il tempo come lo spazio dell’immaginazione e della trasformazione collettiva. Abbasso la campanella!